Il coronavirus non esiste?
L’idea che il coronavirus non esiste realmente o non esiste più si è fatta strada tra molte persone. Questo pensiero è sconclusionato oppure ha delle basi sensate? Cerchiamo approfondire questo quesito.
Il Covid-negazionismo
Secondo alcune linee di pensiero il Coronavirus potrebbe essere un’invenzione mediatica o comunque un’esagerazione da parte dei media. Quest’idea è stata nel tempo elaborata e poi promossa non solo da comuni cittadini, ma anche da persone famose e da medici e scienziati in genere.
Di recente abbiamo assistito anche ad eventi e manifestazioni organizzati dai negazionisti. Non gruppi sparuti, ma decine di migliaia di persone. Questo significa che il fenomeno è diffuso e va assolutamente tenuto in considerazione.
Non si può pertanto negare che una fetta della popolazione sia davvero convinta che il fenomeno Covid-19 sia una sorta di delirio collettivo o, peggio, fomentato dai media per controllare le masse, bloccare le frontiere, creare povertà.
Prima ancora di addentrarci nelle origini di questo fenomeno di pensiero, desidero raccontare come ho vissuto personalmente la vicenda Coronavirus, da uomo e da medico, per illustrare come il Covid-negazionismo non sia una cosa così strana.
Il Coronavirus in Asia: le prime notizie
Quando le prime notizie sul Coronavirus hanno iniziato a trapelare dalla Cina mi sono insospettito. Quando ho visto le immagini dei morti in strada, delle deportazioni forzate dei contagiati e degli ospedali da campo ho chiesto conferma della situazione a persone che hanno contatti con la Cina, che mi hanno confermato la realtà dei fatti.
Da lì ho intuito che il Coronavirus sarebbe arrivato anche da noi. Era troppo energica la risposta cinese perché si trattasse di un virus “innocuo”. Eppure, nel parlare con i miei colleghi, medici ed infermieri, l’idea diffusa era che si trattasse dell’ennesimo falso allarme, così come era stato per la SARS e per la MERS.
Così mi è capitato di essere più volte deriso da vari colleghi e dai miei primari a cui confidavo le mie preoccupazioni. Gli stessi che, qualche mese dopo, avrebbero avuto terrore del Coronavirus. Ma questa è un’altra storia che racconterò in seguito.
Così, al di là di affidare le mie preoccupazioni all’etere attraverso il blog, non ho insistito più di tanto, perchè ero combattuto tra la percezione del pericolo e il dubbio che fosse una mia suggestione.
Il Coronavirus in Italia
L’idea che il Coronavirus potesse giungere in Italia era considerata probabile dai più, specialmente da casi importati dall’Oriente. Tuttavia, dopo i primi casi identificati in gennaio, si pensava di aver già bloccato l’epidemia sul nascere. E soprattutto tra i colleghi medici ancora un buon 80% riteneva che si trattasse di una bolla che si sarebbe sgonfiata. Tutti tendevano a minimizzare parlando di una influenza più forte del solito.
Quando è giunta voce, il 22 febbraio, che risultavano i primi casi sospetti in Veneto, ecco che al primo caso in arrivo nell’ospedale dove ero di turno ho subito alzato la guardia. Tuttavia anche lì ho incontrato, all’inizio, l’ostracismo e la derisione del primario. E solo per mia insistenza si è fatto il tampone al primo paziente sospetto e il personale ha iniziato a proteggersi con le tute. Ecco qui il racconto dettagliato della vicenda:
I primi tamponi
Ebbene, fino ad allora, non avevamo incontrato ancora il Covid-19 per davvero. Per quanto noi fossimo medici, avessimo notizie di prima mano, l’incredulità aveva il sopravvento su tutti noi.
Era per me ancora una realtà indistinta, un fenomeno narrato. Mi sono recato personalmente nei laboratori analisi e di microbiologia degli ospedali in Veneto dove lavoro per chiedere un parere ai colleghi medici più esperti di me in questo settore. L’opinione più diffusa consisteva nel fatto che fosse un virus stagionale. Simil-influenzale. Che girava da tempo, che non meritava alcuna preoccupazione e che tutti gli allarmi fossero infondati. Queste le parole dei medici di laboratorio e microbiologi degli ospedali dove lavoro.
Il Coronavirus in Lombardia: il primo contatto con la realtà
Quando è arrivata la richiesta di andare a dare una mano in Lombardia, a Milano, solo lì ho fatto il mio primo vero contatto con il Coronavirus. Quando ho chiamato il primario di uno degli ospedali milanesi e mi ha descritto la situazione. Quando poi sono arrivato e mi è capitato di vedere decine di pazienti critici ricoverati nelle corsie, in assenza di posti letto in terapia intensiva sufficienti per tutti. Quando ho ascoltato i racconti dei colleghi che piangevano perché tanti li hanno dovuti lasciare andare perché non si poteva curarli tutti.
Perché tutto ciò che non vedi, non esiste.
Al rientro da Milano i colleghi del Veneto mi telefonavano per sapere se era vero quello che si diceva nei media. E al mio racconto dettagliato, rimanevano esterrefatti.
Perfino i colleghi medici non credevano nell’esistenza del Coronavirus, o per lo meno, nella sua temibile efficacia.
Il Coronavirus non esiste? Magari, ma è naturale credere che sia così
Non ci deve sorprendere perciò che esista il fenomeno del Covid-negazionismo, della non esistenza del Coronavirus. Perché è innato nell’uomo il desiderio di stigmatizzare ed esorcizzare le cose che fanno paura. Perché dover sopportare il lockdown è una cosa faticosa, soprattutto se il virus non lo vedi e non lo senti e ne hai solo manifestazioni indirette. Se ti devi fidare di quello che dicono gli altri. Se hai la mente ed il cuore ricchi di spesso giusto risentimento verso le istituzioni, a cui non credi più. Se la paura ti fa chiudere gli occhi, o se semplicemente hai voglia che quando li riapri tutto torni come prima.